(Il testo riportato non riveste carattere di ufficialità)

 

 

 

SENTENZA N. 336

ANNO 2001

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

 

 

composta dai signori:

·        Cesare RUPERTO                     Presidente

·        Fernando SANTOSUOSSO        Giudice

·        Massimo VARI                                      

·        Riccardo CHIEPPA                               

·        Gustavo ZAGREBELSKY                

·        Valerio ONIDA                                  

·        Carlo MEZZANOTTE                              

·        Guido NEPPI MODONA                        

·        Piero Alberto CAPOTOSTI                       

·        Annibale MARINI                            

·        Franco BILE                                      

·        Giovanni Maria FLICK                 

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

 

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 1, commi 57 e 58, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica) e 31, comma 41, della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo), promosso con ordinanza emessa il 27 giugno 2000 dal Tribunale di Vercelli nel procedimento civile vertente tra A. A. e l’Azienda sanitaria locale (Asl) di Vercelli n. 11, iscritta al n. 613 del registro ordinanze 2000 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 44, prima serie speciale, dell’anno 2000.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 26 aprile 2001 il Giudice relatore Piero Alberto Capotosti.

 

Ritenuto in fatto

 

1.        Il Tribunale di Vercelli, in funzione di giudice del lavoro, con ordinanza del 27 giugno 2000, ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, commi 57 e 58, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica) e 31, comma 41, della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo), in riferimento agli artt. 3, 32 e 97 della Costituzione, nella parte in cui disciplinerebbero il diritto dei dirigenti sanitari dell’area medica, dipendenti del Servizio sanitario nazionale, alla trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale.

 

2.        Il giudice a quo premette che il processo principale ha ad oggetto la legittimità del provvedimento con il quale l’Azienda sanitaria locale (Asl) di Vercelli n. 11 ha rigettato la domanda di un dirigente sanitario dell’area medica, dipendente di detta Asl, di trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale. Il rimettente sintetizza l’evoluzione della disciplina del rapporto di lavoro a tempo parziale nel pubblico impiego, deducendo che dalla previsione di un mero interesse legittimo del pubblico dipendente a siffatta trasformazione (d.P.C.M. 17 marzo 1989, n. 117) si sarebbe pervenuti alla configurazione di un diritto ad ottenerla, fatta eccezione per determinate categorie di personale.

 

L’amministrazione sarebbe, quindi, titolare del potere di rigettare la domanda di trasformazione esclusivamente qualora l’attività svolta dal dipendente al di fuori del rapporto dia luogo ad un conflitto di interessi con l’attività di servizio, ovvero di differirne gli effetti, con provvedimento motivato, per un periodo non superiore a sei mesi, nel caso in cui il suo accoglimento possa determinare, <<in relazione alle mansioni e alla posizione organizzativa ricoperta dal dipendente, grave pregiudizio alla funzionalità dell’amministrazione stessa>> (art. 1, comma 58, della legge n. 662 del 1996).

Ad avviso del Tribunale di Vercelli, quest’ultima norma riguarderebbe anche i dirigenti sanitari dell’area medica, di primo livello, i quali, conseguentemente, vanterebbero un diritto alla trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale, non essendo ad essi applicabile l’art. 39, comma 27, della legge 27 dicembre 1997, n. 449 (il quale ha stabilito che l’art. 1, commi 58 e 59, della legge n. 662 del 1996 si applica al personale dipendente delle regioni e degli enti locali finché non sia diversamente disposto da ciascun ente con proprio atto normativo) e non risultando utilmente richiamabili, in considerazione della natura del rapporto, le disposizioni che rendono ammissibili forme sperimentali di contrattazione collettiva in ordine all’articolazione flessibile dell’orario di lavoro ed alla diffusione del part-time, ovvero che disciplinano il cd. telelavoro (art. 8, comma 1, lettera i, del d.lgs. 4 novembre 1997, n. 396).

Secondo il rimettente, il d.lgs. 19 giugno 1999, n. 229 - che ha modificato il d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502 - non avrebbe innovato in parte qua la disciplina in esame, nonostante abbia espressamente soppresso i rapporti di lavoro a tempo definito (art. 15-bis, comma 3), disponendo che il rapporto di lavoro dei dirigenti sanitari comporta la totale disponibilità per la realizzazione dei risultati programmati (art. 15-sexies). Il complesso degli artt. 15-bis, 15-ter, 15-quater e seguenti del d.lgs. n. 502 del 1992 riguarderebbe, infatti, soltanto i dirigenti che svolgono compiti di direzione delle strutture e degli uffici e/o di preposizione a strutture complesse e l’esclusività del rapporto di lavoro (art. 15-bis, comma 2) sarebbe stata <<stabilita in stretta connessione con la previsione dell’affidamento ai dirigenti della direzione delle strutture e degli uffici>>, cosicché le norme concernerebbero esclusivamente detti dirigenti.

L’interpretazione sarebbe confortata sia dalla norma che, in via transitoria, conserva la distinzione tra dirigenti di primo e di secondo livello (art.15-quinquies, comma 7), sia dalla disciplina della nomina (artt. 15 e 15-ter) e del trattamento economico (art. 15-quater), che giustificano l’irriducibilità dell’orario di lavoro esclusivamente per coloro i quali svolgono la funzione dirigenziale “propriamente detta”, cosicché dovrebbe ritenersi che il legislatore si sia limitato <<a sopprimere i rapporti a tempo definito per la dirigenza sanitaria solo con riguardo a soggetti aventi responsabilità organizzative e di struttura>>. Inoltre, a suo avviso, il comma 18-bis dell’art. 39 della legge n. 449 del 1997 - introdotto dall’art. 20 della legge 23 dicembre 1999, n. 488 -, disponendo che <<è consentito l’accesso ad un regime di impegno ridotto per il personale non sanitario con qualifica dirigenziale che non sia preposto alla titolarità di uffici>>, non riguarderebbe la figura professionale in esame. In contrario, sempre secondo il rimettente, non potrebbe essere invocato l’art. 63, comma 1, (recte: 64, comma 1) del contratto collettivo nazionale di lavoro dell’area relativa alla dirigenza medica e veterinaria del Servizio sanitario nazionale dell’8 giugno 2000 il quale, richiamando l’ultima norma sopra indicata, prevede l’inapplicabilità del part-time ai dirigenti sanitari, in quanto la materia non è stata delegificata e la disciplina collettiva deve svolgersi nell’osservanza delle norme primarie che escludono il rapporto di lavoro a tempo parziale esclusivamente per i dirigenti sanitari di secondo livello.

2.1.           Ad avviso del giudice a quo, nella fattispecie in esame sarebbero quindi applicabili le norme impugnate, le quali disciplinerebbero la trasformazione del rapporto di lavoro dei dipendenti in oggetto da tempo pieno a tempo parziale in violazione degli artt. 3, 32 e 97 della Costituzione, recando vulnus al principio di ragionevolezza organizzativa ed al diritto alla salute, realizzando altresì una disparità di trattamento tra i cittadini.

 

La configurazione del diritto del dirigente sanitario dell’area medica ad ottenere la trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale ed il rinvio alla contrattazione collettiva sia dell’eventuale riduzione della percentuale dell’organico per la quale il secondo tipo di rapporto è ammissibile, sia dell’esclusione di determinate figure professionali, in mancanza della fissazione di criteri specifici e di norme di salvaguardia, sarebbero irragionevoli.

Secondo il rimettente, nel settore della sanità, l’eventualità di un esercizio da parte dei dipendenti di tutte le qualifiche e di tutti i livelli del diritto alla trasformazione del rapporto di lavoro, anche in modo <<non massiccio, ma, ad es., a ?scacchiera? o in forme imprevedibili>>, potrebbe pregiudicare il soddisfacimento dei fini istituzionali da parte delle Asl, potendo inoltre la contrattazione collettiva condurre a <<differenti soluzioni in ordine alle modalità applicative ed alla scelta di riduzione delle percentuali e/o di esclusione delle figure professionali che, da caso a caso, possono essere individuate come particolarmente necessarie per la funzionalità dei servizi>>.

Pertanto, conclude il Tribunale, si profilerebbe il rischio di una disparità di trattamento dei cittadini in riferimento al contratto concluso ed applicato in una determinata Asl e le incertezze sulle scelte delle modalità applicative influirebbero <<direttamente sulla funzionalità organizzativa dei diversi comparti ospedalieri in quanto complicano sia la pianificazione degli organici che la gestione degli stessi>>, in violazione del principio di ragionevolezza ed in danno dell’esigenza di assicurare adeguati livelli di efficienza a garanzia della tutela del diritto alla salute.

3.  Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata.

La difesa erariale deduce che la disciplina del rapporto di lavoro part-time nel pubblico impiego si inserisce nel quadro di un più ampio disegno diretto a realizzare una riduzione della spesa pubblica.

Questa disciplina sarebbe caratterizzata dalla identificazione dei settori nei quali essa è applicabile e dalla fissazione di una percentuale dell’organico per la quale la trasformazione è ammissibile, realizzando scelte riservate alla discrezionalità del legislatore, sindacabili esclusivamente sotto il profilo della manifesta irragionevolezza.

A suo avviso, le norme che riguardano il part-time recherebbero una disciplina rispettosa del principio di ragionevolezza, in quanto il legislatore ha avuto cura sia di stabilire un limite massimo dei rapporti di lavoro a tempo parziale, sia di prevedere che le eventuali carenze di organico possono essere fronteggiate mediante i processi di mobilità, ovvero mediante nuove assunzioni rese possibili dal risparmio di spesa ottenuto a seguito della trasformazione dei rapporti di lavoro da tempo pieno a tempo parziale.

Secondo l’interveniente, l’infondatezza della questione sarebbe risolutivamente dimostrata dalla considerazione che il comma 18-bis dell’art. 39 della legge n. 449 del 1997, introdotto dall’art. 20 della legge n. 488 del 1999, ha implicitamente, eppure inequivocamente, stabilito che l’istituto del part-time non è applicabile ai dirigenti in esame, fissando una regola espressamente enunciata anche dall’art. 15-bis, comma 3, del d.lgs. n. 502 del 1992.

Le argomentazioni svolte dal rimettente per riferire quest’ultima disposizione esclusivamente ai dirigenti medici preposti a strutture complesse sarebbero erronee, sia perché sono fondate esclusivamente sulla rubrica della norma - peraltro limitata ad un richiamo alle funzioni dei dirigenti di struttura -, sia perché appaiono in contrasto con la lettera e la ratio del citato comma 3, da identificare nello scopo di assicurare l’efficienza del servizio con riguardo al complessivo assetto della dirigenza sanitaria dell’area medica.

Considerato in diritto

 

1.  La questione di legittimità costituzionale, sollevata con l’ordinanza indicata in epigrafe, riguarda l’art. 1, commi 57 e 58, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 e l’art. 31, comma 41, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, nella parte in cui, ad avviso del giudice  a quo, sarebbe disciplinata la trasformazione del rapporto di lavoro dei dirigenti sanitari di primo livello dell’area medica, dipendenti del Servizio sanitario nazionale, da tempo pieno a tempo parziale.

Secondo il giudice rimettente, le prime due disposizioni, prevedendo, sia pure entro certi limiti, il diritto alla trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale, potrebbero pregiudicare, in violazione degli artt. 3, 32 e 97 della Costituzione, la razionale organizzazione del servizio ed il soddisfacimento dei fini istituzionali da parte delle Asl, e quindi anche la tutela della salute, specialmente quando tale diritto sia esercitato in modo <<non massiccio, ma, ad es., a “scacchiera” o in forme imprevedibili>>.

Inoltre, la terza delle disposizioni censurate, rinviando alla contrattazione collettiva la eventuale riduzione della quota dell’organico per la quale è ammissibile il rapporto di lavoro a tempo parziale, nonché l’individuazione dei dipendenti che possono accedervi, non solo non eviterebbe, in mancanza di criteri specifici e di norme di salvaguardia, tale pregiudizio, ma anzi renderebbe possibili “differenti soluzioni in ordine alle modalità applicative ed alla scelta di riduzione delle percentuali e/o di esclusione delle figure professionali”, ledendo così il principio di parità di trattamento degli utenti del Servizio sanitario nazionale.

3.        ? La questione in parte è infondata, in parte è inammissibile.

 

Il giudice rimettente individua nelle norme censurate una possibile lesione del principio di “ragionevolezza organizzativa” e conseguentemente del diritto di tutela della salute, muovendo dalla premessa che i dirigenti sanitari dell’area medica del Servizio sanitario nazionale vanterebbero, in base all’art. 1, commi 57 e 58, della legge n. 662 del 1996, un diritto ad ottenere la trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale.

L’applicabilità di dette norme non sarebbe infatti esclusa, a suo avviso, né dall’art. 39, comma 18-bis della legge n. 449 del 1997, né dagli artt. 15 ss. del d.lgs. n. 502 del 1992, come modificati dal d.lgs. n. 229 del 1999, i quali avrebbero soppresso “i rapporti di lavoro a tempo definito per la dirigenza sanitaria solo con riguardo a soggetti aventi responsabilità organizzative e di struttura”.

Né, infine, secondo il giudice rimettente, potrebbe essere preso in considerazione l’art. 64, comma 1, del CCNL 8 giugno 2000, sostanzialmente proibitivo del part-time per i dirigenti sanitari, essendo evidente che “la fonte pattizia debba comunque rispettare quanto previsto dalle disposizioni normative in materia”.

2.1 L’ordinanza di rimessione muove dalla premessa non implausibile della riconduzione del rapporto di lavoro a tempo definito dei dirigenti medici al rapporto di lavoro a tempo parziale e però la sviluppa secondo criteri interpretativi che appaiono erronei, anche se notevole è la complessità dei testi legislativi in materia.

Il giudice a quo infatti privilegia un’interpretazione che appare elusiva della ratio e della dinamica del sistema normativo sull’organizzazione sanitaria e comunque omette di verificare la possibilità di una diversa soluzione ermeneutica, che sia coerente con l’evoluzione e la sistematica del quadro normativo e soprattutto idonea a superare i prospettati dubbi di costituzionalità (ex plurimis: sentenze nn. 113 e 17 del 2000, n. 202 del 1999).

La ricerca di una siffatta soluzione era, nella specie, tanto più doverosa, considerando che la proposta questione di costituzionalità doveva apparire molto dubbia, se lo stesso giudice a quo affermava esplicitamente che il divieto di applicazione del tempo parziale ai dirigenti andava riferito ai soli dirigenti di secondo livello “lasciando ancora aperti i termini del problema per quelli di primo livello cui appartiene la ricorrente”, di modo che non poteva apparire così evidente quella palese arbitrarietà o quella manifesta irragionevolezza, che invece sole legittimano, secondo la giurisprudenza costituzionale, il sindacato di costituzionalità sull’ampia discrezionalità, di cui gode il legislatore nelle scelte relative all’organizzazione dei pubblici uffici (ex plurimis: sentenze nn. 141 e 34 del 1999, n. 63 del 1998).

2.2.           Ciò premesso, occorre rilevare che la disciplina del rapporto di lavoro della dirigenza sanitaria dell’area medica presenta risalenti profili di specialità (cfr. sentenza n. 359 del 1993), anche in riferimento al regime dell’orario di lavoro e del principio di esclusività della prestazione.

La specialità del rapporto di lavoro dei medici non deriva soltanto dalla particolarità dell’attività svolta, ma anche dalle varie vicende normative relative alla organizzazione della sanità. Ed infatti fin dal decreto delegato 27 marzo 1969, n. 130, per i medici dipendenti pubblici l’art. 24 stabiliva due diverse tipologie di rapporto di lavoro: a “tempo pieno” ed a “tempo definito” e la successiva evoluzione legislativa del sistema sanitario pubblico ha confermato questa scelta, poiché ha indicato “una precisa distinzione in due tipi di rapporto di servizio dei medici, sulla base di una diversità di impegni, modalità ed orario di lavoro, nonché in relazione alla peculiare disciplina della libera professione intramuraria” (sentenza n. 330 del 1999).

Ma è con l’art. 4, comma 7, della legge 30 dicembre 1991, n. 412 e con la riforma sanitaria del 1992 che cominciano ad introdursi, attraverso i principi di unicità del rapporto di lavoro con il Servizio sanitario nazionale e di unicità del ruolo dirigenziale, forme di progressiva “aziendalizzazione” del Servizio con conseguente incidenza sulla configurazione del rapporto di lavoro dei medici. In particolare risale a questa fase la tendenza a “funzionalizzare l’attività intramuraria rispetto agli obiettivi delle strutture sanitarie pubbliche” (sentenza n. 330 del 1999), attraverso tutta una serie di incentivi a questo tipo di esercizio della professione, ivi compresa la garanzia del passaggio, a domanda e, se del caso, anche in soprannumero, dal regime di “tempo definito” a quello di “tempo pieno”.

2.3. Tali tendenze verso l’unicità del rapporto di lavoro e verso un peculiare regime dell’attività libero-professionale, già presenti nella disciplina del rapporto di lavoro dei dirigenti sanitari dell’area medica, si sono ulteriormente rafforzate dopo la legge n. 662 del 1996.

Ed invero, soprattutto con il d.lgs. 19 giugno 1999, n. 229, modificativo di una serie di norme del d.lgs. n. 502 del 1992, si è consolidato un quadro normativo specifico per il rapporto di lavoro dei dirigenti sanitari. Innanzi tutto viene confermata la soppressione dei rapporti di lavoro a tempo definito per i dirigenti sanitari (art. 15-bis, comma 3); poi viene disposta per essi una serie di misure connesse all’opzione verso il rapporto di lavoro esclusivo, che comporta la “totale disponibilità” (art. 15-quinquies) anche per i medici, i quali -avvalendosi di una facoltà prevista ad esaurimento per alcuni di essi- esercitano l’attività extramuraria (art, 15-sexies), essendo essi comunque responsabili del risultato “anche se richiedente un impegno orario superiore a quello contrattualmente definito” (art. 15, comma 3). In tal modo si è realizzata -come ha già rilevato questa Corte- una nuova, organica disciplina caratterizzata dalla esclusività del rapporto di lavoro e dall’esercizio di attività libero-professionale in forme e tipologie specificamente definite (sentenza n. 63 del 2000).

3.      Già alla luce di questo assetto legislativo, ma soprattutto della successiva evoluzione, riferibile pure alla contrattazione collettiva di settore, appare evidente l’erroneità del criterio interpretativo adottato nell’ordinanza di rimessione. Innanzi tutto non appare condivisibile la tesi prospettata nell’ordinanza di rinvio, secondo cui gli artt. 15 e seguenti del decreto n. 502 del 1992, come modificati dal decreto n. 229 del 1999, impedirebbero il rapporto di lavoro a tempo definito solo ai dirigenti sanitari responsabili di struttura e non anche “ai dirigenti medici tout court”.

Ed invero la formula legislativa del comma 3 dell’art. 15-bis: “sono soppressi i rapporti di lavoro a tempo definito per la dirigenza sanitaria” ha una portata così vasta da ricomprendere tutte le varie tipologie di dirigenti sanitari dell’area medica, le quali sono state unificate, superando ogni precedente distinzione di livelli -alla quale invece inesattamente continua a riferirsi il giudice a quo- dal comma 1 dell’art. 15, che appunto dispone: “la dirigenza sanitaria è collocata in un unico ruolo, distinto per profili professionali, e in un unico livello, articolato in relazione alle diverse responsabilità professionali e gestionali”.

Che la soppressione dei rapporti a tempo definito riguardi l’intera dirigenza sanitaria risulta ancor più evidente alla luce della ratio complessiva del sistema legislativo in questione, che ben può essere individuata, al di là degli altri principi già ricordati, essenzialmente nella statuizione dell’art. 15, comma 3, secondo cui il dirigente sanitario è responsabile del risultato “anche se richiedente un impegno orario superiore a quello contrattualmente definito”.

In questa ottica, altrettanto non condivisibile appare la tesi del giudice a quo, secondo cui neppure il comma 18-bis dell’art. 39 della legge n. 449 del 1997, che consente l’accesso ad un regime di impegno ridotto “per il personale non sanitario con qualifica dirigenziale che non sia preposto alla titolarità di uffici”, potrebbe avere efficacia interpretativa del diverso regime previsto per il personale sanitario. E’ invece da ritenere che, pur perseguendo i commi 18 e 18-bis- introdotto quest’ultimo dall’art. 20, comma 1, lettera f, della legge n. 488 del 1999- finalità di riduzione della spesa attraverso un incremento dei contratti a tempo parziale, il legislatore abbia considerato inopportuno, in relazione alla specificità delle funzioni della dirigenza medica, che tale regime negoziale potesse riguardare anche gli appartenenti a tale categoria. E’ quindi ragionevole interpretare il comma 18-bis come una esplicita esclusione per i dirigenti sanitari medici dalla generale previsione di accesso ad un regime di impegno ridotto.

Del resto una conferma a tale interpretazione può essere tratta non tanto dall’art. 44, che pur dispone la soppressione, entro il 1° dicembre 2001, dei rapporti di lavoro “a tempo definito ed altri similari” dei dirigenti medici, quanto soprattutto dal successivo art. 64, comma 1, del CCNL 8 giugno 2000 per l’area della dirigenza medica e veterinaria, che, anche se con norma programmatica, dichiara che le parti prendono “atto che nell’art. 20, comma 1, punto 18-bis della legge n. 488/1999 l’istituto del part-time non è consentito ai dirigenti sanitari” pur concordando sulla necessità di affrontare il problema dell’utilizzazione di tale istituto solamente nei casi di comprovate, particolari esigenze familiari o sociali, ferma restando la disciplina del rapporto di lavoro esclusivo.

Neppure su questo punto è condivisibile l’argomentazione dell’ordinanza di rimessione, secondo cui ai fini interpretativi non gioverebbe valorizzare la predetta clausola contrattuale. Va infatti osservato che nell’interpretazione della norma legislativa in questione può assumere rilievo la disciplina adottata in sede di contrattazione collettiva, in quanto soprattutto il più volte citato art. 15 del d.lgs. n. 502 del 1992 opera un espresso rinvio, come logica conseguenza della privatizzazione del rapporto di impiego, alla contrattazione collettiva nazionale relativamente a determinati aspetti della disciplina della dirigenza sanitaria (cfr. sentenza n. 507 del 2000). Può quindi avere significato, ai fini dell’interpretazione del citato comma 18-bis, il fatto che con il CCNL del 22 febbraio 2001, integrativo del CCNL dell’8 giugno 2000, sia stato stabilito che possono accedere, ma solo nella misura massima del 3% dell’organico dell’azienda sanitaria, ad un regime di impegno ridotto soltanto i dirigenti che abbiano comprovate esigenze familiari o sociali.

In definitiva, alla luce delle considerazioni svolte appare evidente che il giudice a quo ha seguito un presupposto interpretativo erroneo ed infondato ed ha omesso di verificare la possibilità di individuare altre possibili soluzioni interpretative che consentissero anche di superare, secundum Constitutionem, i prospettati dubbi di costituzionalità.

4.      Infine va osservato che la censura dell’art. 31, comma 41, della legge n. 448 del 1998 concerne una norma che appare inconferente con la fattispecie in esame, in quanto riguarda gli ambiti di contrattazione collettiva relativi al lavoro a tempo parziale svolto presso gli enti locali.

Tali contratti collettivi appartengono però ad un “comparto di contrattazione” differente e distinto da quello del Servizio sanitario nazionale, non essendo comunque dubbio che “con la legge 23 ottobre 1992, n. 421 (art. 1, lettera d) e con il decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (art. 3, comma 1) le unità sanitarie locali sono venute a differenziarsi giuridicamente dall’organizzazione dei comuni, essendo state configurate come aziende dotate di personalità giuridica” (sentenza n. 98 del 1997).

 

La questione relativa al predetto art. 31, comma 41, è pertanto inammissibile.

 

PER QUESTI MOTIVI LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 57 e 58, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica) sollevata in riferimento agli artt. 3, 32 e 97 della Costituzione dal Tribunale di Vercelli con l’ordinanza in epigrafe;

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 31, comma 41, della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo) sollevata in riferimento agli artt. 3, 32 e 97 della Costituzione dallo stesso Tribunale di Vercelli con la medesima ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’8  ottobre 2001.

F.to:

Cesare RUPERTO, Presidente

Piero Alberto CAPOTOSTI, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 19 ottobre 2001.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA